giovedì 13 gennaio 2022

L'arte canora e interpretativa di Beniamino Gigli secondo Gaianus (Il Resto del Carlino, 1927)

«Beniamino Gigli è uno di quei rarissimi cantanti che non ci si stanca mai di ascoltare, che si ricorda con nostalgia e che si vorrebbe riudire presto, presto, magari la sera dopo che lo si è sentito. Tutto ciò, semplicemente, perché Gigli "canta", canta con la sua bella voce morbida e calda, che nelle modulazioni della melodia si snoda con una varietà e una ricchezza di suono e di colori che ha del prodigioso. Beniamino Gigli è un artista nel senso migliore della parola: sa esprimere, sa ridare alla strofa, e al discorso musicale, il ritmo, la linea, l'accento che il musicista intravvide e creò nel lampo divino della sua ispirazione. Ma tutta la sua magnifica, eletta, coscienziosa arte di interprete, è per così dire, assorbita, superata dalla prepotente spontaneità del suo temperamento di 'cantante'. Ieri sera ho rilevato in tutta la creazione del personaggio di Cavaradossi, dettagli e ricerche di interprete di grande classe: ma quando al terzo atto Gigli potè abbandonarsi pienamente al suo estro di cantante, egli apparve di un tratto, al di sopra e al di fuori di ogni confronto. La romanza "E lucevan le stelle", cantata due volte, con diversa intensità di accenti, e con qualche varietà di espressioni, suscitò nell'uditorio un autentico entusiasmo, e sì che tutti l'avevan sentita almeno cento volte, la bella abusatissima romanza pucciniana. E l'entusiasmo vibrò per tutto l'atto ad ogni frase, ad ogni accento, sino alla trionfale invocazione d'amore che parve un folgorare luminoso di note, l'una più bella, piena, sonora, incandescente dell'altra.»

[GAIANUS (pseudonimo di Cesare Paglia) su "Il Resto del Carlino", 15 settembre 1927]

martedì 11 gennaio 2022

L'arte di Beniamino Gigli secondo la testimonianza di Savinio (OGGI, 8 febbraio 1941)

L'arte di Beniamino Gigli secondo la testimonianza di Savinio:

Per apprezzare a dovere l'esecuzione di un'opera, bisogna se non altro poter ascoltare quest'opera integralmente, e gli applausi che venivano giù a torrenti a ogni cadenza di questa "Traviata" tanto cadenzata (è stato applaudito persino il mutamento di scena fatto per mezzo del palcoscenico girevole) ci hanno nascosto metà della musica (...)
trovammo modo di apprezzare una volta ancora l'arte di Beniamino Gigli. Di essere venuto al mondo fornito di un'ugola prodigiosa, il merito non spetta a lui; ma è merito suo l'aver messo la sua ugola al servizio di una tecnica perfetta, di una scienza profonda, di un tanto rispetto della "musicalità" della musica. Diversamente da molti suoi colleghi, e da molte sue colleghe, Gigli canta da musicista. Il suo canto non viene fuori come l'acqua dalla cannella dell'acqua perenne: ora a sbuffi violenti, e ora come un filo. Gigli dà al suo canto un equilibrio costante. Egli sa che una corona non ha un valore "ad libitum", ma una lunghezza pari al doppio di quella della nota. Al senso innato del ritmo, egli ha aggiunto un rispetto rigoroso del tempo. Sa di quanto il cantante "controllato" è superiore al cantante d'istinto. Sa quando è il caso di non insistere, di sorvolare, di "lasciar perdere"; e talvolta si può sorprendere Gigli in atto di "correggere" la sua parte: di sostituirsi all'autore. Egli sa la differenza tra un cantare civile e un cantare incivile. Sa quale segno di civiltà musicale è il legato, la parità di suono. Sa che cos'è stile. E ascoltando Beniamino Gigli, la sua voce guidatissima, il suo legatissimo disegno, si pensa ai disegni di Ingres in punta di matita.

FONTE: Pubblicato su "Oggi", 8 febbraio 1941, p.23

(da: Alberto Savinio - "Scatola sonora", 1955) 

domenica 9 gennaio 2022

"Gigli lascia il teatro" - Rodolfo Celletti ('Musica e dischi', aprile 1955)

Gigli lascia il teatro - UNA VERA E PROPRIA APOTEOSI CORONA QUARANT'ANNI DI GLORIA:

(...) Noi non cercheremo qui di ricostruire le fasi più splendenti della sua carriera – è storia recente (...) Ci limitiamo ad affermare – e non è certo una nostra scoperta – che Gigli è stato ed è ancora il cantante più famoso del mondo. Per questo, appunto, il fatto ch'egli si sia risolto ad abbandonare le scene, non appartiene soltanto alle cronache del teatro lirico, ma si ripercuote, in un certo senso, su tutta la nostra epoca, del cui panorama la sua voce era un elemento costitutivo.

Parliamone, dunque, di questa sua voce che ora vuol lasciarci, di questa voce così familiare, eppure così difficile a descrivere. La principale lusinga n'erano la dolcezza, lo smalto limpido, le vibrazioni regolate al millesimo, i colori distribuiti e amalgamati lungo tutta la gamma con un'esattezza e una simmetria miracolose. Una grandissima voce, sotto ogni riguardo, sfoggiata generosamente, ma, in pari tempo, amministrata con una sana e accorta tecnica e sorretta da arcate di fiati ampie e granitiche. Un impasto soffice, ricco, di riflessi vellutati più che di squilli sfavillanti, ma ciononostante compatto, robusto, sonoro, ridondante. Le modulazioni della "mezza voce" avevano così nitida forza di espansione, così larga portata che non di rado sembrava corrispondessero alla voce piena di un normale tenore. Miracolo che nessuno più compiva – tolto Caruso agli inizi della carriera – dai tempi del famoso Angelo Masini.
Gigli discendeva appunto in linea diretta da quei tenori di grazia, di stampo antico – non esistevano ancora i tenori lirici – che talvolta affrontavano il repertorio drammatico (come Giuglini, Galvani, Calzolari, Gardoni e lo stesso Masini) avvalendosi delle infinite risorse che un'ineccepibile emissione elargiva alla loro voce. Il passaggio dei più "voluminosi" di questi tenori al genere lirico, iniziatosi con il "Faust" e portato a termine con l'affermarsi della giovane scuola – in specie Puccini – era un fatto già da tempo compiuto allorché Gigli si presentò alla ribalta. Ma la perfezione ch'egli raggiunse nella "Manon" di Massenet, nei "Pescatori di perle", nella "Marta", come interprete ed esecutore, e nell' "Elisir", nella "Favorita", nella "Lucia", – qui più come esecutore che come interprete – denunciano l'origine di "grazia" di questo tenore che ha calcato le scene per quarant'anni con l'etichetta di "lirico spinto".
Come volume e colore nulla da eccepire: lo provano non soltanto la "Gioconda", il "Mefistofele", la "Bohème", la "Tosca" – tutti spartiti di cui Gigli è stato un eccezionale esecutore – ma la "Manon Lescaut", lo "Chènier", la "Fedora", l' "Iris", la "Cavalleria", gagliardamente dominate dal punto di vista vocale, come , del resto, il "Ballo in maschera" o la "Forza del destino". (...)
La voce di Gigli è sempre stata – probabilmente lo è tuttora – un argomento irresistibile. S'assottigliava, s'ingrossava, s'oscurava, si schiariva, si fletteva, si tendeva, gemeva, sospirava, imprecava, piangeva ad assoluta discrezione del cantante. Come assortimento d'effetti vocali, lo stesso Caruso, stando almeno ai dischi, parrebbe largamente distanziato, occorre che la nostra immaginazione si spinga fino a Marconi e a Gayarre. Ma sotto l'effetto vocale, ch'è una patina, una vernice, che cosa trovavamo? Anzitutto, che l'altissimo contenuto zuccherino del timbro rispecchiava una vocazione per il canto di grazia sancita dalla natura, anche se non sentita dal cantante; in secondo luogo che l'accento, il fraseggio, il tono, per quanto la voce compisse tutti i prodigi che si vuole, restavano pur sempre quelli del cavalier De Grieux (il De Grieux massenettiano, ch'era anche abate) (...) Perché, non dimentichiamolo, che le voci si dividono in liriche, leggere e drammatiche è scritto sui trattati di canto. Ma che l'accento, in primis, e la mimica, poi, siano un fattore predominante nelle classificazioni dei temperamenti, è incrollabile legge di teatro.

L'accento di Gigli era in armonia col timbro: schietto, spontaneo, ma nella sua schiettezza, nella sua spontaneità, elegiaco, soffice. (...) "O Zurga, quando avrem l'età raggiunta insieme - in cui il sogno dei passati dì - dell'animo svanì...". Gigli doveva sognare: nei "Pescatori di perle", nel racconto di De Grieux, nell'aria di Enzo Grimaldo, nella romanza di Rodolfo, nell'epilogo del "Mefistofele". Non c'è stato tenore del nostro secolo che abbia pronunciato e modulato con tanta melodiosa levità, con tanto fragrante lirismo, con tanto incantato fervore, la parola: sogno. Sulle sue labbra, queste due sillabe evocavano chiarità lunari, tenui vapori antelucani, trasparenze vespertine meglio di tutti gli espedienti dei macchinisti teatrali. Avevano quel "lontanando morire a poco a poco" d'un altro recanatese ch'è stato il più grande e dolente sognatore conosciuto dalla umanità: Giacomo Leopardi.
Questa voce aveva, è verissimo, anche una potente muscolatura e sapeva arroventarsi. E anche così era irresistibile, purché s'arroventasse tra gli incensi e i ceri di San Sulpizio o invocasse: "Oh, Laura mia!". In un'atmosfera, cioè, lirica. (...) tutti coloro che lo hanno sentito – esiste, al mondo,chi non abbia mai sentito Gigli, sia pure soltanto per radio o attraverso un'incisione? – gli sono debitori di quelle sensazioni e di quei sentimenti che soltanto un cantante di eccezionale levatura (eccezionale per tutti i tempi, non soltanto per la nostra grama epoca) può destare. Quando gli gridavano dai loggioni: "Sei un angelo!!!" balenavano, in un improvviso scorcio dei tempi d'oro del teatro d'opera, i furori romantici che divampavano attorno ai Rubini, ai Mario, ai Moriani. (...)

(Rodolfo Celletti su "Musica e dischi", aprile 1955)


BENIAMINO GIGLI (La Civiltà Cattolica, 2008)

G. Arledler - BENIAMINO GIGLI (La Civiltà Cattolica, 1° marzo 2008)

Il 30 novembre dello scorso anno [2007] ricorreva il 50° anniversario dalla morte di Beniamino Gigli, che con Enrico Caruso è passato alla storia come il più grande tenore del Novecento. L'articolo traccia il ricordo di una personalità artistica che piace ricordare non solo nell'ambito musicale, ma anche per le qualità umane.

La sua arte [di Beniamino Gigli] si può valutare pienamente nel repertorio operistico, a confronto con le più grandi voci del suo tempo: scegliamo qualche frammento dall'analisi vocale, un po' tecnica, ma assai puntuale, che ne traccia un grande intenditore di voci liriche come Rodolfo Celletti (1917-2004). Riguarda Gigli nella prima parte, ma non solo, della sua carriera artistica e ci fa comprendere come una voce maschile, quella del tenore in particolare, riesca a suscitare veri e propri fanatismi:

"La voce era tra le più belle udite nel nostro secolo, con un timbro limpido, caldo, ricchissimo di armonici, soffice e con una facilità di emissione che assicurava omogeneità di colore e di vibrazioni a tutta la gamma. Un perfetto controllo dei fiati permetteva fermezza di suono e legati impeccabili; la morbidezza e la duttilità consentivano una mezzavoce capace di espandersi come se fosse un mezzoforte, ma con una velatura lievissima che ne accentuava la dolcezza. L'estensione, ridotta nei primi anni, fu gradualmente portata fino al si naturale (talvolta anche al do) con acuti non squillantissimi, ma pieni, compatti. La dizione, poi, era chiarissima e l'intonazione impeccabile.
Queste qualità fecero di Gigli l'immagine vocale del perfetto tenore di genere lirico, non senza qualche propensione al repertorio lirico-spinto. Quanto all'interprete, rendeva spesso i recitativi e le arie con un'eccellente calibratura di accenti, colori, intensità e a volte la fantasia del fraseggiatore si esprimeva con modi che non avevano nulla da invidiare a quelli di uno Schipa o di un Pertile e che il più ricco materiale vocale rendeva irresistibili.
" [R.CELLETTI - "Grandi voci alla Scala" - Milano, Teatro alla Scala, 1991 (con 6 cd): pagina 129] 



 

 

 

 

 

 




sabato 1 gennaio 2022

Gigli in concerto all'Avana: il suo canto ha entusiasmato fino al delirio ("Rassegna melodrammatica", 27 aprile 1927)

GIGLI
Per due Concerti è stato all'Avana il celebrato tenore e il successo raggiunto è stato indescrivibile. Il suo canto ha entusiasmato fino al delirio e con altre nostre parole non vogliamo guastare la prosa di Sanchez de Fuentes di cui riproduciamo il testo.

("Rassegna melodrammatica", 27 aprile 1927)

«Y es que Gigli siendo un admirable tenor lirico reune tan envidiables dotes, que puedes cantar dentro de los limites del tenor dramatico, sin temor a que su exito pueda aminorar por esa causa. Sa càlida voz, su magnifico acento dramàtico y sus maravillosos agudos, contrastan, a las veces, con el terciopelo de su media voz y con la màs tierna expresiòm en la que sabe poner el cantante su refinado gusto. Y asi, aunando los dos géneros, que pudiéramos llamar; las dos fisonomas que caracterizan corrientemente a los denominados tenores lirico y tenores ligeros, de una parte y a los dramàticos, de otra en este simpàtica y joven hijo prede los màs completos intérpretes vocales de la hora presente. El aria "Una furtiva lagrima" de Donizetti, el "O Paradiso" de Meyerbeer, y, el aria de la "flor" de "Carmen" de Bizet, fueron un testimonio eloquente de cuanto acabamos de manifestar. Una media voz angelical, una ternura de expresiòn exquisita frente a los màs apanaron hondamente al auditorio, derroches ampliamente sonoros y agudos impecables.»