Gigli lascia il teatro - UNA VERA E PROPRIA APOTEOSI CORONA QUARANT'ANNI DI GLORIA:
(...) Noi non cercheremo qui di ricostruire le fasi più splendenti della sua carriera – è storia recente (...) Ci limitiamo ad affermare – e non è certo una nostra scoperta – che Gigli è stato ed è ancora il cantante più famoso del mondo. Per questo, appunto, il fatto ch'egli si sia risolto ad abbandonare le scene, non appartiene soltanto alle cronache del teatro lirico, ma si ripercuote, in un certo senso, su tutta la nostra epoca, del cui panorama la sua voce era un elemento costitutivo.
Parliamone, dunque, di questa sua voce che ora vuol lasciarci, di questa voce così familiare, eppure così difficile a descrivere. La principale lusinga n'erano la dolcezza, lo smalto limpido, le vibrazioni regolate al millesimo, i colori distribuiti e amalgamati lungo tutta la gamma con un'esattezza e una simmetria miracolose. Una grandissima voce, sotto ogni riguardo, sfoggiata generosamente, ma, in pari tempo, amministrata con una sana e accorta tecnica e sorretta da arcate di fiati ampie e granitiche. Un impasto soffice, ricco, di riflessi vellutati più che di squilli sfavillanti, ma ciononostante compatto, robusto, sonoro, ridondante. Le modulazioni della "mezza voce" avevano così nitida forza di espansione, così larga portata che non di rado sembrava corrispondessero alla voce piena di un normale tenore. Miracolo che nessuno più compiva – tolto Caruso agli inizi della carriera – dai tempi del famoso Angelo Masini.
Gigli discendeva appunto in linea diretta da quei tenori di grazia, di stampo antico – non esistevano ancora i tenori lirici – che talvolta affrontavano il repertorio drammatico (come Giuglini, Galvani, Calzolari, Gardoni e lo stesso Masini) avvalendosi delle infinite risorse che un'ineccepibile emissione elargiva alla loro voce. Il passaggio dei più "voluminosi" di questi tenori al genere lirico, iniziatosi con il "Faust" e portato a termine con l'affermarsi della giovane scuola – in specie Puccini – era un fatto già da tempo compiuto allorché Gigli si presentò alla ribalta. Ma la perfezione ch'egli raggiunse nella "Manon" di Massenet, nei "Pescatori di perle", nella "Marta", come interprete ed esecutore, e nell' "Elisir", nella "Favorita", nella "Lucia", – qui più come esecutore che come interprete – denunciano l'origine di "grazia" di questo tenore che ha calcato le scene per quarant'anni con l'etichetta di "lirico spinto".
Come volume e colore nulla da eccepire: lo provano non soltanto la "Gioconda", il "Mefistofele", la "Bohème", la "Tosca" – tutti spartiti di cui Gigli è stato un eccezionale esecutore – ma la "Manon Lescaut", lo "Chènier", la "Fedora", l' "Iris", la "Cavalleria", gagliardamente dominate dal punto di vista vocale, come , del resto, il "Ballo in maschera" o la "Forza del destino". (...)
La voce di Gigli è sempre stata – probabilmente lo è tuttora – un argomento irresistibile. S'assottigliava, s'ingrossava, s'oscurava, si schiariva, si fletteva, si tendeva, gemeva, sospirava, imprecava, piangeva ad assoluta discrezione del cantante. Come assortimento d'effetti vocali, lo stesso Caruso, stando almeno ai dischi, parrebbe largamente distanziato, occorre che la nostra immaginazione si spinga fino a Marconi e a Gayarre. Ma sotto l'effetto vocale, ch'è una patina, una vernice, che cosa trovavamo? Anzitutto, che l'altissimo contenuto zuccherino del timbro rispecchiava una vocazione per il canto di grazia sancita dalla natura, anche se non sentita dal cantante; in secondo luogo che l'accento, il fraseggio, il tono, per quanto la voce compisse tutti i prodigi che si vuole, restavano pur sempre quelli del cavalier De Grieux (il De Grieux massenettiano, ch'era anche abate) (...) Perché, non dimentichiamolo, che le voci si dividono in liriche, leggere e drammatiche è scritto sui trattati di canto. Ma che l'accento, in primis, e la mimica, poi, siano un fattore predominante nelle classificazioni dei temperamenti, è incrollabile legge di teatro.
L'accento di Gigli era in armonia col timbro: schietto, spontaneo, ma nella sua schiettezza, nella sua spontaneità, elegiaco, soffice. (...) "O Zurga, quando avrem l'età raggiunta insieme - in cui il sogno dei passati dì - dell'animo svanì...". Gigli doveva sognare: nei "Pescatori di perle", nel racconto di De Grieux, nell'aria di Enzo Grimaldo, nella romanza di Rodolfo, nell'epilogo del "Mefistofele". Non c'è stato tenore del nostro secolo che abbia pronunciato e modulato con tanta melodiosa levità, con tanto fragrante lirismo, con tanto incantato fervore, la parola: sogno. Sulle sue labbra, queste due sillabe evocavano chiarità lunari, tenui vapori antelucani, trasparenze vespertine meglio di tutti gli espedienti dei macchinisti teatrali. Avevano quel "lontanando morire a poco a poco" d'un altro recanatese ch'è stato il più grande e dolente sognatore conosciuto dalla umanità: Giacomo Leopardi.
Questa voce aveva, è verissimo, anche una potente muscolatura e sapeva arroventarsi. E anche così era irresistibile, purché s'arroventasse tra gli incensi e i ceri di San Sulpizio o invocasse: "Oh, Laura mia!". In un'atmosfera, cioè, lirica. (...) tutti coloro che lo hanno sentito – esiste, al mondo,chi non abbia mai sentito Gigli, sia pure soltanto per radio o attraverso un'incisione? – gli sono debitori di quelle sensazioni e di quei sentimenti che soltanto un cantante di eccezionale levatura (eccezionale per tutti i tempi, non soltanto per la nostra grama epoca) può destare. Quando gli gridavano dai loggioni: "Sei un angelo!!!" balenavano, in un improvviso scorcio dei tempi d'oro del teatro d'opera, i furori romantici che divampavano attorno ai Rubini, ai Mario, ai Moriani. (...)
(Rodolfo Celletti su "Musica e dischi", aprile 1955)
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domenica 9 gennaio 2022
"Gigli lascia il teatro" - Rodolfo Celletti ('Musica e dischi', aprile 1955)
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